SOLAR è la newsletter per chi vuole capire cosa conta davvero per affrontare la crisi climatica. Io sono Anna Violato, giornalista ambientale di RADAR, e ogni due settimane vi parlo di un modo in cui possiamo già ridurre le nostre emissioni di gas serra.
Vi ricordate il buco nell’ozono? Negli anni Ottanta, solo pochi decenni dopo la scoperta che nella stratosfera terrestre c’era uno strato di ozono, un gruppo di ricercatori britannici scoprì che sopra l’Antartide questo strato si era assottigliato in modo preoccupante. I livelli di ozono erano così bassi che inizialmente i dati rilevati erano stati considerati errori di misurazione.
Se lo strato di ozono nell’atmosfera alta avesse continuato a diminuire, la superficie terrestre sarebbe stata esposta a livelli pericolosi di radiazioni ultraviolette (UV). Dal momento che l’esposizione agli UV può portare a danni al DNA, sarebbe stato un problema per tutta la biosfera: non solo per noi, in cui gli UV aumentano il rischio di cancro alla pelle (mettetevi la crema solare!), ma anche per le piante, per esempio, che esposte agli UV crescono meno e sono più deboli.
Il protocollo di Montreal, entrato in vigore nel 1989, cambiò la situazione. Il trattato (che presto fu firmato da praticamente tutti i paesi del mondo, un risultato che sarebbe straordinario anche oggi), bandì le sostanze responsabili dell’assottigliamento dell’ozono, i clorofluorocarburi (CFC). I CFC erano usati come gas refrigeranti in frigoriferi e condizionatori, ma erano anche contenuti in deodoranti, spray per i capelli, estintori e altri prodotti. Nel giro di pochi anni l’emissione di prodotti che riducono l’ozono stratosferico crollò: oggi si stima che il buco nell’ozono si richiuderà entro la metà del secolo.
Ma perché ne stiamo parlando qui, in una newsletter sulle soluzioni alla crisi climatica? All’epoca del Protocollo di Montreal non era un aspetto all’ordine del giorno, ma i CFC sono anche dei potentissimi gas serra. Senza che fosse il suo obiettivo primario, questo trattato è stato uno degli accordi internazionali con maggiore impatto nel limitare il riscaldamento globale. Secondo uno studio uscito su Nature, se i CFC non fossero stati regolati, nel 2100 avrebbero portato a un riscaldamento di 2,5 °C dell’atmosfera (in più di quelli che già prevediamo), per l’azione come gas serra, per i danni alle piante dati dagli UV e altri effetti combinati.
Un grande successo, quindi? Se pensiamo allo scenario che si sarebbe aperto, di sicuro. Ma non è un problema del tutto risolto. Ancora oggi, il settore dei gas refrigeranti è uno dei grandi grattacapi per ridurre le emissioni globali di gas serra. Anche perché sono usati in apparecchi per cui la richiesta è in crescita, tra cui pompe di calore (ne abbiamo parlato nella prima uscita di SOLAR) e condizionatori (fa sempre più caldo, l’avevate sentito?).
Avviso: nei prossimi paragrafi arrivano un po’ di termini tecnici. Sopportatemi, dura poco.
La messa al bando dei CFC ha messo il mondo della ricerca e delle aziende davanti al problema di come sostituirli. La risposta sono stati prima gli idroclorofluorocarburi (HCFC), anche questi pericolosi per lo strato di ozono e ora in via di eliminazione, poi i gas fluorurati (detti F-gas per semplicità), di cui i più diffusi sono gli HFC o idrofluorocarburi.
Con gli F-gas l’ozono è al sicuro, ma il cambiamento climatico no: questi composti sono dei potenti gas serra, anche perché sono molto persistenti in atmosfera. Il grafico qui sotto mette a confronto il potenziale di riscaldamento globale dei diversi gas serra calcolato su 100 anni e prendendo come riferimento la CO2. Quelli evidenziati con riquadri rossi sono gli F-gas: sono dalle 100 alle 23.000 volte più bravi della CO2 a trattenere calore nell’atmosfera.

Alcuni gas fluorurati, tra l’altro, sono sotto osservazione da parte di molti paesi europei in quanto appartenenti alla famiglia dei PFAS, sostanze dette “inquinanti eterni” per la loro persistenza nell’ambiente. I PFAS tendono ad accumularsi nei tessuti degli esseri viventi, compresi quelli umani, e agiscono come interferenti endocrini (ci siamo occupati dell’inquinamento da PFAS anche su RADAR).
Per fortuna le emissioni di questi gas sono decisamente più basse di quelle di CO2 e di metano. Si stima che nel 2016 contassero per circa il 2% delle emissioni (oggi probabilmente sono aumentate, lo vediamo tra poco). Per fare un confronto, questa percentuale è paragonabile alle emissioni dell’intero settore dell’aviazione globale.
E ogni 2% conta, ricordiamocelo: la maggior parte delle attività umane oggi ha un effetto sul clima, e per ridurre le emissioni dobbiamo lavorare in ogni singolo settore.

In questo momento la sfida è doppia: trovare alternative che abbiano minori impatti sul cambiamento climatico (ma che siano comunque efficienti e sicure) ed evitare che i gas prodotti in passato - e ancora contenuti in vecchi apparecchi - vengano rilasciati nell’atmosfera. Entrambe le azioni sono considerate nella top ten delle soluzioni per limitare il riscaldamento globale entro i 1,5 °C, considerata la soglia per evitare gravi effetti sui sistemi globali (dalle forti ondate di calore alla distruzione di ecosistemi).
A preoccupare è che lo sforzo di passare ad alternative meno impattanti finora è limitato solo all’Europa e al Nord America. Una ricerca condotta in collaborazione tra università cinesi e di altri paesi evidenzia come oggi la Cina sia lo stato che emette più F-gas, e prevede che le sue emissioni aumenteranno in futuro se non vengono approvate norme per evitarlo - come in Europa.
In marzo, infatti, il Parlamento Europeo ha votato a favore di una revisione ambiziosa della norma europea sugli F-gas, proponendo di eliminare del tutto l’uso di HFC entro il 2050 e di limitare quello di altri gas fluorurati in applicazioni diffuse, come le pompe di calore e i condizionatori mobili - un obiettivo più stringente rispetto a quelli in campo finora. La proposta è ora in fase di discussione con Commissione Europea e Consiglio d’Europa, ma la direzione chiara è quella di puntare su sostanze alternative, che abbiano meno impatto sul riscaldamento globale. Secondo un rapporto dell’ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), l’Italia è all’avanguardia per gli studi in questo settore - e le aziende si stanno muovendo velocemente per stare al passo.
Più complesso ancora è evitare che i gas prodotti in passato vengano rilasciati nell’atmosfera. A livello globale, ogni paese - a volte ogni città - ha i suoi modi di gestire il fine vita degli elettrodomestici che contengono gas refrigeranti. Ma la consapevolezza del problema è il primo passo. Ecco alcune delle azioni più efficaci che le persone possono fare per aiutare a risolverlo:
All’acquisto di un frigorifero, scegliere un elettrodomestico ad alta efficienza energetica. Fare attenzione in particolare all’acquisto di abbattitori di temperatura o dispenser di ghiaccio: questi sistemi spesso usano ancora HFC (mentre la maggior parte dei frigoriferi usano già sostanze alternative).
Fare manutenzione regolare degli impianti di condizionamento.
Smaltire i vecchi frigoriferi e condizionatori secondo le regole del proprio Comune, in modo da garantire il corretto recupero e smaltimento dei gas refrigeranti.
Non vi fa un po’ impressione, adesso, vedere un vecchio condizionatore abbandonato per strada?
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Leggi anche:
PFAS, la mappa europea degli inquinanti eterni (RADAR Magazine)
Come il protocollo di Montreal ha disinnescato una bomba climatica (Le Scienze)
Il buco dell'ozono si richiuderà entro metà secolo (Il Bo Live)
Mystery emissions of ozone-damaging gases are fuelling climate change (Natural History Museum)
SOLAR è una newsletter di RADAR Magazine. È curata da Anna Violato, giornalista ambientale e divulgatrice scientifica, che ancora prova a resistere a vivere a Bologna senza condizionatore.
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