Dopo una (decisamente lunga) pausa estiva, rieccoci con una nuova puntata di SOLAR! Per i molti nuovi iscritti: SOLAR è la newsletter di RADAR Magazine per chi vuole capire cosa conta davvero per affrontare la crisi climatica. Io sono Anna Violato, giornalista ambientale di RADAR, e ogni due settimane vi parlo di un modo in cui possiamo già ridurre le nostre emissioni di gas serra, collettivamente e individualmente.
L’estate appena finita è stata un catalogo impressionante degli effetti del cambiamento climatico in atto, con ondate di calore e alluvioni che hanno colpito l’Europa (e non solo). Anche se per attribuire singoli eventi estremi al cambiamento climatico serve sempre un minimo di cautela, chi studia il clima globale concorda sul fatto che la frequenza e la gravità di questi eventi estremi aumenterà.
Un’analisi delle anomalie climatiche e degli eventi estremi di agosto 2023, pubblicata dalla NOAA (il principale ente governativo statunitense che studia il meteo e le condizioni di oceani e atmosfera), ci dà una panoramica più chiara di cosa sta succedendo, al di là del dato che l’agosto 2023, a livello globale, sia stato il più caldo agosto mai registrato.
La settimana scorsa a New York si è tenuto il Climate Ambition Summit delle Nazioni Unite. Ha fatto discutere la decisione del Segretario Generale Antonio Gutierrez di non dare la parola, sul palco della conferenza, ai paesi che non stanno mettendo in atto piani abbastanza concreti per tagliare le emissioni di gas climalteranti, tra cui Stati Uniti, Cina ed Emirati Arabi. “Non sono sicuro che tutti i leader stiano sentendo il caldo. Le azioni [dei governi] sono assurdamente inadeguate”, ha dichiarato Gutierrez in apertura dell’Assemblea Generale dell’ONU.
Oggi vi voglio parlare di un modo per tagliare le nostre emissioni di gas serra che fa arroccare su posizioni intransigenti anche le persone di più ampie vedute, fa prendere posizione politici e associazioni di categoria, scatena campagne di disinformazione e boicottaggi: ridurre - o eliminare - il consumo di carne.
“Crying in H Mart” è uno dei libri più belli che ho letto l’anno scorso: un racconto autobiografico del rapporto dell’autrice, la musicista coreano-americana Michelle Zauner, con la madre - morta prematuramente per un tumore - narrato attraverso l’unico linguaggio che avevano davvero in comune, quello del cibo. Salse, sughi, fermentazioni e brodi spesso entrano nei racconti solo di striscio, più per creare uno sfondo credibile che come veri protagonisti. Non è così in questo memoir, in cui ogni piatto ha un significato preciso nel lessico familiare di Zauner e può dimostrare volta per volta nostalgia, frustrazione, insicurezza, amore, ma con un costante desiderio di sottofondo, quello di sentirsi davvero coreana, come la madre.
Anche per chi non vive la cucina come un’esperienza così fondante della propria identità, l’espressione dei nostri gusti, modi di essere, tradizioni personali, ricordi include inevitabilmente il cibo. Per noi italiani, mangiare assieme è un lubrificante delle relazioni. L’integralismo che esibiamo riguardo al cibo “tradizionale” è diventato un meme. E non c’è da stupirsi che molti siano restii a mettere in discussione la propria dieta.
Non è facile dire quanto esattamente il settore alimentare incida sulle emissioni di gas serra mondiali, ma sappiamo che questo impatto è ingente: nel 2018, uno studio che ha analizzato le emissioni di circa 38 mila produttori agricoli in tutto il mondo ha stimato che il settore del cibo causi almeno il 26% delle emissioni di gas serra globali, poco più di un quarto. Considerando anche le emissioni del cibo che finisce nei rifiuti e i consumi energetici legati al cibo (per esempio la cottura nelle case e i frigoriferi nei supermercati), questa percentuale sale a circa un terzo del totale.
Ma l’impatto varia drammaticamente da un alimento all’altro. Il motivo per cui la carne - in particolare quella bovina - è diventata un grande terreno di scontro nella discussione sul cambiamento climatico lo si vede a colpo d’occhio nel grafico qui sotto, che raccoglie i dati (dallo studio del 2018 di cui sopra) sulle emissioni lungo la catena di produzione e distribuzione di diversi prodotti alimentari:
La prima riga mostra lo sproporzionato impatto della carne di manzo nella produzione di gas serra: per ottenere un kg di carne bovina vengono prodotti 60 kg di CO2 equivalente1, contro i 6 della carne di pollo o gli 0,9 dei piselli. La colpa è del metano, prodotto nella digestione dei ruminanti, ma anche della necessità di dedicare ampie aree della superficie terrestre al bestiame e alle colture per produrre mangimi (c’è, cioè, un cambiamento nel modo in cui il suolo viene usato, elemento che nel grafico è rappresentato in verde). Ogni ettaro di terreno che viene convertito ad allevamento (o a campo per coltivare le piante con cui verrà alimentato il bestiame) è un ettaro di terreno che viene sottratto a ecosistemi naturali come foreste, aree umide, praterie, savane. Senza la loro copertura vegetale, queste aree perdono la capacità di assorbire CO2 dall’atmosfera e immagazzinarla (nel legno degli alberi, ma anche nel suolo) e diventano inoltre inospitali per le specie selvatiche.
Ci sono luoghi del pianeta in cui trovare nuovi terreni agricoli da sfruttare è un affare redditizio. Nell’Amazzonia brasiliana, la foresta pluviale - un habitat chiave per l’assorbimento della CO2 dall’atmosfera - è considerata terreno inutilizzato dal settore agricolo: roghi illegali e appropriazione della terra sono metodi con cui zone di foresta vergine vengono convertite all’agricoltura e all’allevamento. E le autorità spesso chiudono un occhio, soprattutto negli scorsi anni durante l’amministrazione di Jair Bolsonaro (i cui alleati oggi si alleano con gli imprenditori agricoli, visto che l’attuale governo di Lula ha dichiarato di voler mettere fine alla deforestazione).
E anche in Italia, ridurre la produzione di carne libererebbe spazi che potrebbero essere usati per ripristinare ambienti naturali. Secondo l’ultimo censimento dell’agricoltura Istat, in Italia sono allevati più di 5 milioni e mezzo di bovini, 7 milioni di ovini, 8,7 milioni di suini e ben 173 milioni di avicoli (soprattutto polli). L’impatto di questo settore non è solo limitato all’emissione di gas serra, ma include anche l’inquinamento da liquami e il consumo di acqua potabile. Quest’ultimo fattore potrebbe essere un problema specialmente nel nostro paese, in cui nei prossimi decenni dovremo far fronte sempre più spesso alla scarsità d’acqua proprio a causa del riscaldamento globale.
Ma in Italia, quanta carne mangiamo? Secondo i dati raccolti dalla FAO nel 2020, in Italia si mangiano in media 71 kg di carne all’anno (circa 200 g al giorno), di cui 16 sono di bovino (più o meno un pasto a base di carne ogni 4). La media è un po’ inferiore che nel resto dell’Europa (78 kg annui) e decisamente minore rispetto al paese più carnivoro di tutti, gli Stati Uniti (127 kg annui, per la devastante media di 350 g di carne al giorno). Ma comunque ben più della media mondiale di 43 kg annui.
Per neutralizzare le emissioni del settore alimentare non ci può essere una soluzione unica che copra tutti i contesti sociali ed economici, dagli allevamenti intensivi della Pianura padana ai sistemi pastorali tradizionali africani. Ma ciò apre a una rosa di possibilità diverse, per esempio agire sulla domanda in filiere che hanno impatti sproporzionati, come quella della carne. Secondo un nuovo studio, se sostituissimo anche solo metà del consumo di carne (manzo, pollame, maiale) e latticini con alternative vegetali entro il 2050, potremmo in gran parte fermare la distruzione degli ecosistemi dovuta all’agricoltura e ridurre di un terzo le emissioni dell’intero settore agricolo.
Anche le Nazioni Unite mettono in luce i vantaggi di una dieta flexitariana - molto basata sui vegetali, ma che includa qualche prodotto animale - che sembra essere anche più salutare. Eppure, gli interessi economici nel settore sono enormi. Guardiamo a quanto è avvenuto durante la stesura dell’ultimo rapporto dell’IPCC sul cambiamento climatico, il più importante documento che riassume la posizione degli esperti mondiali di clima sugli effetti del cambiamento climatico e i modi per affrontarlo. Alla stesura finale del documento partecipano anche delegati dei vari paesi del mondo, che possono proporre modifiche al testo: un leak ha mostrato come i delegati di Brasile e Argentina, tra i maggiori produttori di carne bovina, abbiano fatto pressione per rimuovere dal rapporto i riferimenti agli impatti ambientali della carne e la raccomandazione di promuovere diete a base di vegetali.
Come ha spiegato il filosofo Peter Singer, autore del saggio Liberazione animale, che negli anni ‘70 ha contribuito a far nascere un dibattito pubblico sull’etica di mangiare animali, oggi siamo di fronte a un paradosso: rispetto agli anni ‘70, nei paesi ricchi è aumentato sia il numero di persone che scelgono una dieta vegetariana o vegana, sia il consumo medio di carne per abitante. Davanti alla consapevolezza che mangiare prodotti animali provoca sofferenza a degli esseri viventi - in particolare vacche, agnelli, polli, maiali, animali per cui proviamo empatia e riconosciamo come dotati di una loro individualità - oppure che provoca danni all’ambiente o che è un danno per la nostra salute, ci troviamo di fronte a un conflitto psicologico.
Un modo molto umano per sbrigliarci da questo dilemma è negarlo: e se tutti questi dati, accumulati e verificati nel corso di decenni da gruppi indipendenti di scienziati in tutto il mondo, fossero solo un complotto ambientalista-vegano della potente lobby delle lenticchie? Un altro modo, che sto provando a sperimentare io stessa, è di agire sulla dieta senza pensare in modo binario, o vegano o carnivoro, o tutto o niente. Sapori, preparazioni, ingredienti ci legano al luogo in cui viviamo e al nostro passato; possono essere un sentiero per esplorare una cultura, per conoscere le abitudini degli altri. Sono elementi che rimangono legati alla nostra identità, avvolti come in un arrosto: non ha senso negare il nostro legame emotivo con il cibo, ma aver messo al centro dell’attenzione i prodotti animali ci ha reso ciechi a una miriade di altre opzioni deliziose, dalla storia ricca e dal valore nutritivo alto.
I legumi, per esempio, sono alla base dell’alimentazione umana dall’alba dei tempi (pare che perfino i Neanderthal li usassero per fare il pane), hanno un alto contenuto di proteine e sono alla base di piatti incredibili come la ribollita, la pasta e fagioli e la farinata. Non stupisce che, secondo uno studio del CREA, i legumi siano l’alimento favorito da quel 51% di italiani che hanno già deciso di ridurre il loro consumo di carne, con benefici per la loro salute e per l’ambiente. Oltre al già ricco repertorio di ricette italiane, l’intera area mediterranea offre spunti deliziosi per piatti a base di alimenti vegetali: dal Medio Oriente falafel di ceci e hummus (se pensate che sia un piatto magro e triste provate questa ricetta dello chef Yotam Ottolenghi), ful di fave dall’Egitto, laadass di lenticchie dal Marocco. Andando un po’ più lontano, in India - dove lo sviluppo economico non ha portato a un incremento nel consumo di carne al livello della maggior parte degli altri paesi - l’uso tradizionale dei legumi ha portato a ricette come il daal e il dosa, una specie di crepe salata a base di riso e lenticchie (buonissima). In realtà, ridurre i nostri pasti a base di carne ci apre a un mondo di sapori che finora abbiamo trascurato: perché non sfruttarle per crearci nuovi gusti, tradizioni personali, ricordi? Con la possibilità, ogni tanto, di concederci una carbonara.
E tu, hai deciso di cambiare abitudini alimentari per ragioni ambientali? Raccontaci cosa stai facendo (o perché non riesci a cambiare) con il tasto qui sotto.
Leggi anche:
Coltivare tra gli alberi: viaggio nell’agroforesta di Zé Ferreira (RADAR)
Il paradosso della carne (Il Post)
Un incendio doloso riduce in cenere un progetto di riforestazione in Amazzonia (Internazionale)
SOLAR è una newsletter di RADAR Magazine. È curata da Anna Violato, giornalista ambientale e divulgatrice scientifica, che ha sviluppato un amore incondizionato per il curry di lenticchie.
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Crediti per l’immagine di copertina: Spinoziano - Own work, CC BY-SA 4.0. Elaborazione grafica di RADAR.
Ne abbiamo parlato anche nella prima puntata di SOLAR, ma ripassiamo: la CO2 equivalente è l’unità di misura usata per confrontare e stimare il contributo al riscaldamento globale di diversi gas serra rispetto alla stessa quantità di anidride carbonica.
Non sono vegetariano ma non compro più carne. La mangio solo se ospite di altre persone. Una svolta interessante in una dieta a prevalenza vegetale sono i cibi fermentati, che sto sperimentando da un po'. In molti casi si possono facilmente autoprodurre in modo casalingo con alcune accortezze, e oltre ad apportare molti benefici a livello di macrobiota intestinale aggiungono quel tocco di umami alla dieta che arricchisce il palato e fa sentire meno la mancanza della carne.
Sarebbe interessante immaginare delle forme di regolamentazione che limitino la produzione di carne (e quindi il consumo). Sono vegetariano da un paio d'anni, ma ritengo che senza iniziative che ricadano su tutta la società si possa fare ben poco.